Intorno al 1784, un religioso italiano, l’abate Tommaso Silvestri venne inviato dall’avvocato Pasquale Di Pietro, presso l’istituto francese di de l’Epée per apprendere il nuovo metodo educativo d’istruire i sordomuti. L’avvocato Di Pietro era un ricco signore romano che desiderava aiutare i sordomuti della sua città, poiché all’epoca in Italia, non c’erano istituti che si occupavano della loro istruzione.

Dopo sei mesi di permanenza a Parigi, nel 1784 Tommaso Silvestri inizia la sua attività educativa nella casa dell’avvocato Di Pietro con solo otto alunni, utilizzando il metodo appreso a Parigi: istruiva ai sordi attraverso i segni metodici. L’abate, purtroppo dopo cinque anni d’insegnamento, muore.

Durante i cinque anni, il suo lavoro ebbe un gran successo, infatti non solo aumentò il numero dei discenti, ma numerosi insegnanti, di ogni parte d’Italia, si recarono da lui per apprendere il nuovo metodo.

L’esperienza di Silvestri non è unica in Italia; infatti tra la fine del settecento ed il 1850 sorgono numerosi istituti speciali per sordomuti. Alcuni istituti noti che vengono fondati in questo periodo sono: nel 1807 viene fondato a Napoli un istituto appoggiato politicamente ed economicamente dal re Ferdinando I di Borbone; nel 1811 a Genova viene fondato da Ottavio Giovanni Assarotti; nel 1828 da Tommaso Pendola dell’ordine degli Scolopi, con il sostegno del granduca in Toscana, che ne apprezzava gli obiettivi ed i risultati.[1]

Nelle regioni  meridionali, il primo istituto per sordomuti è stato fondato a Lecce nel 1885, dal religioso Filippo Smaldone, denominato apostolo dei sordomuti.

Nel culmine del periodo illuminante per i sordi, mentre si istituivano le scuole che si occupavano della loro educazione, mentre si considerava ed accettava il loro linguaggio gestuale, nel 1880, praticamente dopo l’unità d’Italia, numerosi educatori e religiosi si riuniscono in un congresso nella città di Milano, per scegliere e decretare una lingua unica ed ufficiale, eliminare i numerosi dialetti ed abbattere tutte le minoranze linguistiche compreso il linguaggio dei sordomuti, proprio mentre questa lingua si stava affermando.

Così è scritto nella seguente Risoluzione finale:

Il Congresso, considerando la non dubbia superiorità della parola articolata sui gesti, per restituire il sordomuto alla società, per dargli una più perfetta conoscenza della lingua,

dichiara

che il metodo orale debba essere preferito a quello della mimica nell’educazione e istruzione dei sordomuti”.[2]

Al dibattito parteciparono numerosi educatori sordi che lottarono senza successo contro questa amara decisione, cercando di spiegare la validità e la necessità di rispettare, utilizzare e continuare a far comunicare i sordi con la Lingua dei Segni. Questa scelta definitiva ed assoluta è stata influenzata da varie ragioni storiche e sociali, quali l’alfabetizzazione del nascente Paese, l’Italia, che desiderava affermarsi in un’unica lingua abbattendo tutte le minoranze linguistiche. Anche le scienze umanistiche e pedagogiche identificano tutte le loro idee, tutto il loro mondo con la parola ed il clero; fu soprattutto quest’ultimo a sostenere la necessità e la scelta di un metodo esclusivamente oralista. Un sordo doveva imparare a parlare per esser un buon cristiano, un buon cittadino, un buon operaio e per avere accesso alla cultura. Un sordo prima di poter acquisire un sapere intellettuale, doveva imparare a parlare. Essa era la condizione essenziale per l’inserimento sociale. Tutto ciò ha avuto delle conseguenze nefaste sulla crescita psicologica, cognitiva e sociale delle persone sorde.[3]

Da questo momento in poi, tutti gli istituti si sono trasformati in “cliniche della parola ed i sordi dovettero <<passare alla clandestinità>> per poter comunicare nella loro lingua.”[4]

In questo periodo solo i bambini sordi, figli di sordi, hanno continuato ad apprendere la Lingua dei Segni Italiana (LIS), tuttavia non hanno trovato in nessun istituto, in nessuna scuola alcun supporto che facilitasse l’uso e l’apprendimento LIS.[1]

Secondo lo psicologo, sordo ed autore di numerosi testi, Renato Pigliacampo, la maggioranza dell’Assemblea del Congresso di Milano non aveva compreso la differenza tra metodo da utilizzare nell’ambito didattico, per favorire un’adeguata istruzione ai sordi, e la specificità della comunicazione nella vita sociale, nello scambio quotidiano di informazioni con gli udenti. Questo errore viene giustificato, perché in quei tempi non vi era alcuna distinzione tra apprendimento scolastico e apprendimento fonetico.[2]

Si dovrà attendere il 1970, quando un linguista americano, dopo vari studi affermerà che il linguaggio dei sordi è una lingua vera e propria. Da questa scoperta, si assiste ad un rinascimento del popolo sordo, che in primis scopre di possedere una lingua e di essere parte di una comunità, di avere dei diritti che lentamente sta cercando di conquistare.

Attualmente sono tante le barriere da abbattere, prima fra tutti il fatto che i sordi attendono con ansia il riconoscimento della Lingua dei Segni, che il nostro Parlamento non ha ancora attuato. Eppure a livello europeo, molti Stati si sono attivati dopo la Risoluzione di Salamanca, discussa alla Conferenza mondiale, organizzata dal governo spagnolo in collaborazione con l’Unesco, sull’educazione con bisogni speciali: “Access and Quality”. L’art. 21 della Risoluzione asserisce: “Le politiche sociali educative devono tener conto delle differenze individuali e delle diversità delle situazioni. L’importanza del linguaggio dei segni come mezzo di comunicazione per i sordi ad esempio, dovrà essere riconosciuta e bisognerà assicurare l’accesso a tutti i sordi all’istruzione per mezzo di questo linguaggio. In considerazione dei bisogni particolari delle persone sorde in materia di comunicazione, può essere più appropriato provvedere alla loro istruzione in scuole specializzate o in classi o unità speciali in seno a istituti ordinari”.[3]

In Italia ancor’oggi la Lingua dei Segni non è stata riconosciuta nell’ambito legislativo. Le ragioni di questo ritardo sembrano dipendere dalla situazione atipica presente sul nostro territorio, chi sostiene la LIS e chi la vuole annientare.

A sostenere la LIS troviamo l’Ente Nazionale Sordomuti (ENS), associazione Onlus che si occupa e preoccupa della protezione e dell’assistenza delle persone sorde, presieduta da soggetti sordi.

L’ENS da anni combatte per il riconoscimento della LIS e per il rispetto dell’identità e della comunità del popolo sordo, ma i pregiudizi sulla Lingua dei Segni persistono ancora oggi sul pensiero che uccida la parola, e non su reali basi scientifiche che accende la parola, la mente, la logicità che comporta una lingua naturale.

Ancor’oggi, buona parte della nostra popolazione è ancora sotto l’effetto della risoluzione del Congresso di Milano; buona parte dell’educazione dei sordi è nelle mani di coloro che sentono, che dopo tanti anni di esperienze ancora non hanno compreso le conseguenze del non sentire, accusano la LIS di compromettere l’apprendimento della lingua orale senza aver mai avuto esperienza con entrambe le lingue per constatare che sia un dato di fatto e non un pregiudizio.

Un consiglio, prima di giudicare, effettuate personalmente una ricerca etnografica, solo così si potrà arrivare al rispetto dei bisogni speciali altrui.

BIBLIOGRAFIA E RIFERIMENTI

[1] Cfr. M. W. BATTACCHI, M. MONTANINI MANFREDI, Pensiero e comunicazione nei bambini sordi, Editrice Cueb, Bologna 1991, pp. 21-22

[2] Cfr. R. PIGLIACAMPO, Lingua e linguaggio nel sordo, Armando Editore, Roma 1998, pp. 87-88

[3] Dichiarazione di Salmanca 1984 Cit. in S. MARAGNA, La sordità…, op. cit.,  p. 141

[1] Cfr. M. GELATI, op. cit., p. 39

[2] S. MARAGNA, La sordità. Educazione, scuola, lavoro ed integrazione sociale, Hoepli, Milano 2008, p. 23

[3] Cfr. A. ZUCCALÀ, op. cit., pp. 90-91

[4] O. SACKS, op. cit., p. 22