La sordità è la privazione totale o parziale della capacità di percezione dei suoni. Dal punto di vista clinico, i deficit uditivi, definiti ipoacusie, possono essere distinti, a seconda della loro origine, in tre forme principali:

ipoacusie di trasmissione (o di conduzione), ipoacusie neurosensoriali e ipoacusie miste. Le prime sono imputabili a malformazioni, infiammazioni o lesioni dell’apparato di trasmissione dei suoni, come per esempio le otiti medie acute o croniche, o alla presenza di corpi estranei nel condotto uditivo, mentre le seconde derivano da una lesione che interessa la coclea (apparato di percezione) o le vie acustiche centrali.

L’ipoacusia di tipo misto, invece, si verifica quando un danno a carico dell’apparato di trasmissione si innesta su una lesione neurosensoriale, aggravandola, o quando fattori patogeni agiscono contemporaneamente su entrambi gli apparati.[1]

Il 50% dei casi di sordità ha origine genetica, ma all’interno di questi vanno distinti due gruppi:

  • “le sordità non sindromiche recessive (chiamate NRSD), che rappresentano circa il 70% dei casi e sono le sordità per così dire pure, non associate ad altre malattie;
  • le sordità sindromiche legate a una specifica malattia, di cui la perdita dell’udito è uno dei sintomi;  rappresentano il restante 30%.

Il gene GJB2 all’interno del cromosoma 13 sembra essere il responsabile della sordità genetica. Il modo esatto in cui la mutazione dà luogo a difetti dell’udito è in gran parte sconosciuto, ma si è scoperto che essa influenza il funzionamento di una proteina coinvolta nella formazione delle gap junction, i ponti che permettono il passaggio di piccole molecole e correnti ioniche tra cellule”.[2]

A seconda dell’eziologia della menomazione, della diagnosi, i deficit uditivi vengono classificati, attraverso una valutazione audiometrica, in “quattro gradi in relazione all’entità della perdita uditiva espressa in decibel (classificazione del Bureau International d’Audiophonologie):

  • lieve con soglia tra 20 e 40 decibel;
  • media con soglia tra 40 e 70 decibel;
  • grave con soglia tra 70 e 90 decibel;
  •  profonda con soglia uguale o superiore ai 90 decibel.

All’interno della sordità profonda c’è ancora un ulteriore suddivisione:

  • 1° gruppo: sordità con curva pantonale[3] che abbraccia tutte le frequenze tra i 125 e i 4000 Hertz all’intensità dei 90 decibel;
  • 2° gruppo: sordità con curva dai 125 ai 2000 Hertz all’intensità uguale o maggiore di 90 decibel;
  • 3° gruppo: sordità con curva detta a virgola dai 125 ai 1000 Hertz a intensità maggiore ai 90 decibel”.[4]

Va subito sottolineato che i soggetti definiti sordi hanno in comune esclusivamente la caratteristica di non udire e che non possono, quindi, essere considerati un gruppo omogeneo. Essi, infatti, si differenziano sia quantitativamente sia qualitativamente l’uno dall’altro, allo stesso modo degli udenti, che, pur avendo tutti l’udito integro, rivendicano ciascuno una propria unicità. Dei sordi, invece, si è parlato e si parla ancora come di una categoria di persone che, per effetto del deficit uditivo, agiscono, pensano e si comportano in un unico modo caratteristico ed evidenziano tratti della personalità tipici.[5]

Dal punto di vista psicolinguistico e sociale, la sordità è un handicap definito invisibile perché la menomazione non solo non è visibile ad occhio nudo ma, soprattutto, non si riescono a comprendere le sue conseguenze.

Per quanto concerne la definizione lessicale dell’handicap, i termini sordo e sordità sono stati usati nel nostro linguaggio in modo crudo, spesso sono state oggetto di malintesi, di insensibilità. Nel campo medico, i soggetti sordi sono etichettati da una miriade di termini che li designano: minorazione uditiva, audiolesione, anacusia, otologopatia,  non udente, portatore di deficit uditivo.

Nel linguaggio comune, invece, si è da sempre fatto uso del termine sordomuto, suggerendo così l’immagine di una persona che oltre a non sentire, ha anche un impedimento della parola, o un difetto, un mal funzionamento dell’apparato vocale.[6]

Recentemente il Ministero del Welfare ha sostituito il termine sordomuto con il termine sordo, distinguendo però due tipi di sordi: il sordo preverbale ed il sordo postverbale. La differenza consiste nel momento in cui si diviene sordo, se prima o successivamente ai dodici anni. Il nucleo della legge consiste nel voler estendere i benefici legislativi solo ai sordi preverbali, in quanto le persone sorde sono misurate esclusivamente su un unico aspetto visibile: quello linguistico, negando dei diritti a chi diventa sordo dopo i dodici anni soltanto perché ha acquisito la competenza linguistica.

Il termine sordo, è un termine generico che sta quasi ad indicare l’uguaglianza di tutti nell’essere nella condizione di non sentire. Tuttavia, non è così perché esistono diversi gradi di sordità e queste differenze hanno un’importanza qualitativa e persino ‘esistenziale’.

In linea generale, ogni menomazione uditiva ha delle conseguenze differenti e man mano che il numero dei decibel aumenta di livello il campo udibile si restringe sempre più. In genere, il campo udibile è diviso in tre parti:

1)    La zona delle sonorità lievi: in questo caso, la persona è definita normoacustico in quanto ha una soglia uditiva tonale nella norma. In pratica, il soggetto normoacustico non sente i rumori di fondo che sono al di sotto della soglia dei 45 decibel (dB). Se la curva è compresa tra i 25 e 45 dB, il soggetto è affetto da una lieve ipoacusia. In questo caso, la situazione non è grave, è solo lieve e permette l’acquisizione spontanea del linguaggio. Non sono ritenute necessarie le protesi acustiche[7], congegni computerizzati e personalizzati, anzi queste potrebbero provocare danni per le distorsioni di vario tipo.

2)    La zona delle sonorità medie: qui siamo ai livelli che vanno dai 45 ai 65 dB. In questa zona il soggetto è affetto da ipoacusia media e può apprendere il linguaggio verbale in modo spontaneo seppur con una certa difficoltà. È possibile, che vi sia un ritardo nell’acquisizione del linguaggio verbale. Sono consigliate (a seconda dei casi) le protesi acustiche. Il livello dei 65 dB corrisponde grosso modo, all’intensità della normale voce di conversazione colta a due metri di distanza.

3)    La zona delle sonorità forti: essa è compresa fra più livelli, quelli da 65 dB ed quelli superiori a 100 dB. Nella curva audiometrica 65-85 dB, il soggetto è affetto da grave ipoacusia, In questi casi, non si può ottenere un’acquisizione spontanea del linguaggio verbale e la protesi acustica è in ogni caso, consigliata ai fini comunicativi. Nella curva audiometrica da 85 a 105 dB ed oltre i 105 dB di perdita uditiva, il soggetto è affetto da ipoacusia gravissima. Non serve l’uso delle protesi. Oltre gli 85 dB, il soggetto non sente neanche la sua stessa voce.[8]

I soggetti denominati dall’antropologo Oliver Sack duri di orecchio, in quanto affetti da sordità lieve o moderata, tale da consentire la comprensione della lingua parlata grazie al supporto delle protesi acustiche sono denominati nel gergo comune col termine sordastri. “La parola sordastro deriva dal latino surdaster, che significa letteralmente ‘alquanto sordo’ e non ha alcun valore dispregiativo”.[9]

I primi tentativi di costruzione delle protesi acustiche risalgono all’800, con il medico Jean Marc Itard, che operava nell’Istituto statale dei sordomuti di Parigi. Le prime protesi che il medico creò erano enormi e formate da un doppio cornetto acustico.

La tecnologia in questo campo si è molto evoluta: da protesi retroauricolari si è passati a protesi endoauricolari, da protesi con amplificazione non lineare siamo giunti a quelle digitali, da protesi giganti abbiamo oggi protesi minute, di vari colori, anche trasparenti ed addirittura impermeabili.

L’estetica rappresenta una variabile importante, può aiutare ad accettare uno strumento che evidenzia la propria diversità. “Più di una volta ho fortissimamemente voluto tagliarmi i capelli, ma avevo troppa paura di farlo. Certo, appare ridicolo guardare al taglio dei capelli come ad un problema irrisolvibile a quattordici, sedici o perfino a vent’anni, ridicolo assai. Ma con il terrore che io avevo, e che a volte – lo confesso – ho tuttora, di essere rifiutato, respinto o comunque emarginato (se non dagli altri, dalla vita), ecco che anche andare dal barbiere può diventare una ossessione dalla quale non ci si libera. Un pensiero grande quanto un batterio ma che nella mia testa s’ingrassava fino ad occuparla completamente”.[10]

La tecnologia non si è fermata solo alla costruzione di protesi esterne, ma è andata oltre sino a creare anche una protesi da inserire all’interno del corpo dell’utente sordo: gli impianti cocleari.

L’impianto cocleare è un dispositivo elettronico, che viene inserito all’interno dell’orecchio, nella coclea danneggiata, e stimola le fibre residue del nervo acustico, trasmettendo il messaggio sotto forma di impulsi elettrici alle strutture neurali retrococleari. Esso è formato da due parti, uno esterno, il padiglione auricolare che funge da microfono ed uno interno, che riceve i messaggi dall’esterno e stimola la chiocciola con gli elettrodi inseriti.[11]

Si tratta di una “protesi” in via sperimentale che viene applicata solo sui soggetti completamente sordi perché una volta subito l’intervento si perdono tutti i residui uditivi naturali.

Da parte del popolo sordo ci si auspica un’evoluzione tecnologica nell’ambito delle protesi esterne, in quanto non si corre alcun rischio né di interventi operatori, né di perdite dei residui uditivi naturali posseduti, né perdita di libertà dovuta all’inserimento del microchip nel cervello, né vittime degli scopi economici dei medici che vantano i loro piccoli successi e nascondono la lunga fila degli insuccessi.

Questo tipo di “protesi” ha aperto un grande scenario di dibattiti tra approvazione e disapprovazione, tra successi e fallimenti, tra medici che sbandierano solo i loro successi e l’ENS (Ente Nazionale Sordomuti) che invita alla prudenza.


[1] Cfr. M. L. FLAVIA, Una scuola oltre le parole. Comunicare senza barriere: famiglia e istituzioni di fronte alla sordità, Franco Angeli, Milano 2003, p. 110

[2] S. MARAGNA, La sordità…, op. cit., pp. 17-18

[3] “Curva pantonale: curva con residui acustici su tutte le frequenze” – Cit. in G. ARLUNO – O. SCHINDLER,  Handicappati e scuola: il bambino sordo nella scuola di tutti, Edizioni Omega, Torino 1982, p. 42

[4] S. MARAGNA, La sordità…, op. cit., pp. 15-16

[5] Cfr. M. L. FLAVIA, op. cit.,  p. 109

[6] Cfr. Ibidem, pp. 13-15

[7] “La protesi acustica è sostanzialmente un apparato amplificatore che si interpone fra sorgente sonora ed orecchio di chi la ascolta aumentando in grado maggiore o minore il livello sonoro del messaggio acustico che giunge alla coclea”. – Cit. in G. ARLUNO – O. SCHINDLER, op. cit., pp. 66-67

[8] Cfr. G. ARLUNO – O. SCHINDLER, op. cit., pp. 41-45

[9] M. L. FLAVIA, op. cit., p. 109

[10] D. REGOLO, Il messaggio delle onde. Dalla sordità all’Oceano Atlantico, Edizione Cantagalli, Siena 2001, pp. 29-30

[11] Cfr. S. MARAGNA, La sordità…, op. cit., pp. 54-56